S'ARD

"In what is called ethnic dance we discover the truth that
the more vulgar something is, the greater is the beauty expressed"

"S'Ard", ossia "danzatori delle stelle" è il termine fantastico immaginato dallo scrittore sardo Sergio Atzeni, per indicare gli antichi abitanti dell'isola dei danzatori, la Sardegna.
"Su ohi de s'accabadora" invece è un'espressione linguistica arcaica, ancora in uso in terra sarda, usata come imprecazione in risposta a chi si lamenta emettendo appunto "ohi". L'associazione che sottende a tale manifestazione è riferita all'ultimo lamento di un moribondo colpito a morte dall'accabadora.
L'accabadora, secondo la tradizione comune, era una vecchia donna che veniva chiamata dalla famiglia di un moribondo per abbreviarne la straziante e prolungata agonia.
Le origini di questa radicata tradizione si perdono nel corso della lunga e travagliata storia della Sardegna, che nei secoli è sempre stata terra di conquista di popoli provenienti da diversi angoli della terra. Simili culture addotte hanno subito un processo di sedimentazione tale, che ora si ritrovano stratificate nei variegati costumi isolani.
La figura dell'accabadora è considerata inquietante e scomoda, in passato ignorata oppure tollerata dalla Chiesa Cattolica ufficiale, spesso negata dagli stessi sardi che ritenevano la questione delicata e da vivere esclusivamente nel segreto della dimensione paesana.
Agiva nelle ore notturne con gran circospezione, consumava l'atto facendosi chiudere da sola nella stanza con il moribondo, e dopo uno specifico rituale poneva termine alle sue sofferenze probabilmente con un esperto colpo di mazzuolo sul capo. Rimanendo unica testimone, si assicurava in questo modo, che l'evento misterioso rimanesse celato nella riservatezza delle mura domestiche.

C'è qualcosa nel mondo della danza che è in agonia da molto tempo, che sta marcendo. Un desiderio profondo si anima nel NON-danzatore che oscilla pericolosamente sul confine tra ombra e luce.
Dare una "giusta morte" alle aspettative sorte nei confronti di una danza ormai consolidata, noiosa e pretenziosa. Favorire un "dolce trapasso" a chi (danzatori in prima linea), ancora ostenta una forma per difendere una posizione, per rimanere attaccato ad una "vita-danza" in agonia.
Colpire, affrontare direttamente un pubblico anestetizzato dall'abitudine e inconsapevole delle infinite possibilità. Offrirgli un autentico shock che gli consenta la comprensione senza manifestazioni intellettuali, attraverso la sorpresa. Un agguato strategico per scuotere e un trapasso del danzatore che pretende di intrappolare la danza, che conduca a nuova vita.
Consacrare se stessi alla realizzazione di un impulso necessario a fare avanzare la ruota dell'energia bloccata in modelli cristallizzati da tempo. Il danzatore "muore" per liberare la danza che si cela nel suo profondo.

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Con geniale e ludica leggerezza che non annulla la complessità dell'impegno, Pintus porta avanti le sue contaminazioni di confini, nel costante rigore dell'esperire tutte le possibilità dell'essere e del corpo, con la non frequente capacità di creare realmente un luogo in cui performer e pubblico sono testimoni e partecipi di un evento. Se la contestualizzazione è lo strumento attraverso cui la sua ricerca si fa creazione, il "puro desiderio di conoscenza", con le parole dello stesso Pintus, spiegano il senso e la natura della sua danza tendente alla totalità, alla precisione esplosiva, al coinvolgimento assoluto di sé e degli altri.
(Ax Panepinto, responsabile Art Stage - Fondazione Links)