NATURA CON UOMO MORTO
La danza si nutre di vita. Tutti noi mangiamo e siamo mangiati, danziamo e siamo danzati.
Polverosi appendiabiti ad accoglierci negli ingressi delle nostre case. Custodi muti di memorie andate, dimenticate come indumenti dimessi e appesi pigramente ad aspettare un infinito tempo.
Un Uomo Morto (sinonimo in italiano di appendiabiti) sostiene le nostre maschere sociali, i nostri strati protettivi che al rientro a casa ci togliamo, per “ciabattare” nella rassicurante segretezza casalinga apparente. L’appendiabiti è la metafora del corpo vuoto, slegato da abitudini e inibizioni sociali. Rappresenta lo scheletro nell’armadio che custodisce le nostre insicurezze camuffate, le nostre abitudini truccate. Orrori che si mostrano ai nostri occhi, come in vetrina, solo quando temporaneamente ce ne denudiamo. Il corpo del danzatore è legato con una fune ad un appendiabiti. La danza si sviluppa all’inizio in maniera minimale, svelando lievemente e poeticamente la relazione che lega il corpo di carne al corpo impeccabilmente oggettivo dell’ “uomo morto”. Poi in un crescendo energetico e progressivo emerge tutta la drammaticità esplosiva racchiusa nel corpo del danzatore.
Il lavoro si colloca perfettamente a fianco dell’ideologia del fondatore del Butoh, Tatsumi Hijikat,a che sovente usava descrivere la danza Butoh come “…un morto che vuole alzarsi e rimanere in piedi a tutti i costi”. Ecco che in questa performance è possibile leggere un disperato tentativo di esistere ad ogni costo, un desiderio ancestrale di sopravvivenza che si realizza attraverso una danza che insiste e si spinge oltre ogni limite del corpo. In tale lotta per l’esistenza l’uomo si confronta con la sua ombra, nutrendosene e trasformando il suo dentro nel suo fuori, inghiottendo buio e lasciando emergere un rinnovato corpo luminoso.